
Accompagnato da un perseguitato ai tempi della guerra fredda, la visita al carcere tedesco della STASI è stata interessante sia sotto l’aspetto storico, sia sotto l’aspetto esperienziale. La spiegazione delle dinamiche degli interrogatori manipolativi e la vita all’interno delle celle, raccontata da chi quegli spazi li ha vissuti, assumono connotazioni emotive che consentono di cogliere il significato più profondo delle ingiustizie subite, oltre i soliti racconti didascalici e statistici.


Sulle onde emotive del film “Le vite degli altri”, dopo aver visitato il museo della DDR e il muro di Berlino, nel complesso, la visita a questo edificio è stata importante per capire meglio quel periodo storico che in nessuno altro posto del mondo è stato vissuto in modo viscerale come a Berlino. Gestito da volontari, oggi l’ex carcere, ha lo scopo di raccontare quelle verità che tutt’oggi vengono negate ai più. Lo scopo dei volontari è anche quello di mantenere viva una storia di cui il governo oggi non si preoccupa molto, come fosse un parente scomodo semplicemente ci convive, e soprattutto si pone da contraltare ai tanti tedeschi nostalgici che si dividono tra negazionisti, affermando che in quel carcere non succedeva nulla di strano, e quanti auspicano un ritorno di leggi vigorose e controllo sociale.


La guida ci spiegava anche come quel carcere oggi è rappresentativo di una cultura perché, raccontava, la differenza culturale tra Berlino Ovest e Berlino Est non è crollata insieme al muro, e anche se i più non la notano, i residenti avvertono benissimo questa differenza sino ad arrivare a frequentare ognuno i propri spazi. La STASI non è stata semplicemente l’organizzazione statale per lo spionaggio tedesco, ma è una cultura. Le ingiustizie vissute dalla guida, raccontate durante la visita, si fanno angoscia quando alla fine resta chiaro che una prigione si può chiudere, un’organizzazione smantellare, un muro crollare, ma la cultura resta.



Il nazismo prima, la guerra fredda dopo, non sono altro che la manifestazione di una cultura “deviata” che si può trasformare solo attraverso la crescita di una cultura del valore della vita e delle cose.